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Come viene tradizionalmente notato, tra i pilastri di ogni moderno sistema processuale vi è il principio dell'effettività della tutela giurisdizionale, il quale principio richiede che sia garantito all'attore che può avere ragione il conseguimento pratico del bene che gli è riconosciuto dalla legge. Vi è però il pericolo che il tempo necessario allo svolgersi dei processo ordinario faccia giungere troppo tardi il provvedimento definitivo, perché nel frattempo si sono verificate circostanza tali da rendere impossibile (o più gravosa) l'attuazione pratica della sentenza di accoglimento della domanda giudiziale. Si tratta quindi di risolvere quello che è stato definito 'forse il più antico e più difficile problema pratico di ogni legislazione processuale': la necessità che il provvedimento definitivo, 'per essere praticamente efficace, sia emanato senza ritardo e la inettitudine del processo ordinario a creare senza ritardo un provvedimento definitivo'. Occorre in altri termini regolare 'uno di quei casi in cui la necessità di far presto si urta contro la necessità di far bene: affinchè il provvedimento definitivo nasca colle migliori garanzie di giustizia, esso dev’essere preceduto dal regolare e meditato svolgimento di tutta una serie di attività, al compimento delle quali è necessario un periodo, spesso non breve, di attesa; ma questa mora indispensabile al compimento dell'ordinario iter processuale rischia di rendere praticamente inefficace il provvedimento definitivo, il quale pare essere destinato, per amor di perfezione, a giunger troppo tardi, come la medicina lungamente elaborata per un ammalato già morto. Per neutralizzare il rischio di inefficacia pratica della tutela giurisdizionale derivante dalla durata fisiologica del processo ordinario, normalmente i sistemi processuali degli ordinamenti interni prevedono che il giudice possa proteggere medio tempore la posizione giuridica sostanziale dedotta in giudizio, in attesa della decisione finale. Per riferirsi all'insieme dei rimedi, di natura tipica o atipica, cui il giudice ricorre a tale scopo, nella terminologia italiana si ricorre all'espressione "provvedimenti cautelari", che può considerarsi equivalente a quelle correntemente utilizzate in ordinamenti stranieri (me sur es proviso ires, medidas cautelar es, provisionai reme dies, Vorsorgliche Rechtsschutz).
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Obiettivo della tesi è analizzare il significato e l'evoluzione della Politica Comunitaria Preferenziale di Cooperazione allo Sviluppo. Tale lavoro di ricerca non intende essere un 'percorso storico', uno studio cronologico dell'evoluzione delle relazioni preferenziali con gli ACP, dal Trattato di Roma al Trattato di Maastricht. Piuttosto esso si prefigge di analizzare la Politica di Cooperazione allo Sviluppo preferenziale attraverso la sua trasformazione, avvenuta nella pratica comunitaria, da una situazione 'de facto', a una situazione 'de jure'. Ovvero il passaggio da 'relazioni di cooperazione', avviate fin dalle origini del sistema comunitario (Trattato di Roma), ad una reale Politica Comunitaria di Cooperazione con il riconoscimento specifico di una competenza in tale settore in capo alla Comunità (Trattato di Maastricht).
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Delineare con precisione i confini di un lavoro di ricerca può non essere cosa agevole, soprattutto se si tratta di una ricerca di natura giuridica e giuslavoristica in particolare. 1 temi che ne costituiscono l’oggetto, non sono mai del tutto astraibili dallo scenario che li circonda, e rischiano quindi, se non debitamente contestualizzati, di essere erroneamente percepiti come oggetti sospesi nel vuoto di una solo apparente compiutezza. L’analisi giuridica della contrattazione collettiva comunitaria - oggetto di questo lavoro - non costituisce in questo senso una eccezione, trattandosi anzi di una materia che soltanto artificiosamente, potrebbe essere interamente esaurita nelle scarne norme positive che ne costituiscono il quadro giuridico di riferimento. Condotta unicamente attraverso lo studio dei riferimenti normativi ad essa propri, una indagine sulla contrattazione collettiva comunitaria risulterebbe non solo e non tanto metodologicamente discutibile, quanto e soprattutto deprivata di una serie di elementi di conoscenza e di valutazione, la cui considerazione si rivela in grado di produrre un rovesciamento degli esiti inizialmente preventivabili. Il lavoro che si presenta costituisce un tentativo di recuperare la “visibilità” di tutti i molteplici fattori - giuridici, istituzionali, politici e sindacali - che, convergendo sul medesimo spazio concettuale occupato dalla contrattazione comunitaria, contribuiscono a definirne e a qualificarne i contorni. La trattazione costituisce di conseguenza il risultato di uno sforzo ricostruttivo scandito dalla continua tensione tra le esigenze di una indagine analitica e le necessità di una valutazione sintetica; tra una fecalizzazione che rischia di nascondere il contesto e una visione d’insieme nella quale la nitidezza delle linee rischia di scomparire; tra i condizionamenti inerziali di una formazione giuslavoristica attenta alla dimensione ordinamentale delle relazioni industriali, e la necessaria considerazione delle complesse trame istituzionali che, in un ordinamento “plurale” come quello comunitario, condizionano qualsiasi forma di regolazione giuridica; insomma tra lo specifico oggetto della ricerca e il complessivo scenario nel quale esso si colloca.